Ne «Il silenzio della lingua» lo spazio espositivo è in continua mutazione: consapevole della necessità di una simile trasformazione non oppone resistenza e vinto dall’energia che defluisce da ciascuna opera si apre a luogo mistico, un campo di forze in tensione, governato da tre presenze femminili. Viene utilizzato il termine “presenza” volutamente poiché di queste tre entità lo spettatore non coglie alcun connotato fisico che attribuisca loro fattezze umane, e che insieme rimandi a un’idea di bellezza accomodante, sensuale. Al contrario, i soggetti delle tre opere esposte destabilizzano attraverso la non-presenza, una fisicità silente, ma comunque percepibile dalla voce che si fa strada come istinto di rivalsa. Se è vero che «parlare per una donna rasenta l’oscenità», allora le donne de «Il silenzio della lingua» gridano ancora più forte, mutano in creature dai tratti animaleschi e fuori controllo in un luogo dove incantesimo, voce e trasformazione attendono l’arrivo dello spettatore. Nell’opera video “Moîra Logos. Un discorso sul destino” di Angelo Iaia, il lamento Ma emèna mu dispiàcesse keccia-mu che fa da sottofondo sonoro, suona quasi come un richiamo ancestrale. Esistono nella storia della donna canti capaci di ammaliare e sedurre conducendo a morte sicura; il canto delle prefiche nel lamento funebre della Grecìa salentina è invece espressione di potere, un linguaggio di moduli verbali, melodici e mimici la cui ripetizione ritualizzata funge da scudo protettivo durante la crisi del cordoglio. Il terrore del ritorno del morto, pronto a reclamare qualcosa nel mondo dei vivi, spinge la famiglia di appartenenza a retribuire queste donne, le prefiche, affinché mediante parole, movimenti e suoni giungano a una sorta di estasi durante la quale instaurare un rapporto con il defunto, parlare con lui, pacificarlo e condurlo verso la giusta dimora, impedendo in questo modo il suo ritorno. Angelo Iaia offre una rilettura del rituale attraverso la sovrapposizione di linguaggio sonoro e visivo. Risalendo alle radici dell’indole umana - che rifiuta la possibilità della morte - riflette sulla caducità delle cose e sulla necessità da parte dell’uomo di non ostacolare questo processo: il letto arso dal fuoco va incontro a una lenta distruzione e diventa simbolo di quella vita che cessato di esistere deve essere lasciata andare. L’opera “Moîra Logos. Un discorso sul destino” estende in questo modo la soglia della pratica ritualistica fin dentro lo spazio espositivo, restituendo la dimensione contemporanea del rito, e obbligando lo spettatore a prenderne parte mentre dentro di lui comincia a farsi strada la consapevolezza di un addio. Il canto delle prefiche agisce alla stregua di un «incantesimo» lungi dall’ammaliare preserva l’integrità degli individui. La realtà circostante si scopre dominata dalla parola che dietro un atto apparentemente così semplice come la denominazione, rivela la straordinaria potenza di scegliere cosa può o non può esistere. La ricerca di Adele Dipasquale muove proprio attorno alle strutture linguistiche e alla produzione del linguaggio come forme arcaiche di costruzione del mondo; mediante questa ricerca ci induce a riflettere sul potere creativo della parola e sulla pericolosità che questo esercita se posto nelle mani del tiranno. Tanto nel passato quanto nel presente, le parole sono diventate spesso strumento di oppressione, abusate e strumentalizzate hanno diviso tra oppressi e oppressori; ecco perché allora quel «silenzio della lingua» diventa un «destino storico e di genere». L’artista riflette su come questa strumentalizzazione abbia condotto a un linguaggio estremamente fabbricato, a una serie di modi tramandati meccanicamente e ormai radicati nel nostro tessuto semantico. La serie “Flighty matters”da cui l’opera video “Harpy”proviene, cerca di sovvertire questo sistema aprendo a nuove possibilità di comunicazione. Nel video la parola è infatti assente, al suo posto un indistinto insieme di suoni, grida acute e gemiti gutturali. Sono quelli emessi da un soggetto femminile che, perdendo la propria voce, attraversa una nuova fase di esistenza e una mutazione fisica. Il video riflette il topos che classicamente associa la donna a un deflusso irrazionale e incontrollato di suoni, più simile al mostruoso che all'umano. Lo spettatore avverte il respiro di questa creatura che assume il punto di vista della telecamera; impiegando distorsione, associazioni di immagini e materiale d'archivio, Adele Dipasquale introduce a un notturno che esplora il labile confine tra femminilità e animalità. Ne “La ballata del rimorso”di Giada Cicchetti questa potente dicotomia tra razionale e irrazionale che nelle opere precedenti si manifesta solo in potenza, trova l’apice, implodendo anche all’interno dello spazio espositivo, rovesciando le aspettative del pubblico. La serie di opere fotografiche proposta dall’artista raffigura alcuni soggetti femminili per i quali la trasformazione è già avvenuta: il morso della tarantola ha colpito portando con sé manifestazioni isteriche, convulsioni e crisi fisiche. Il tarantismo è un fenomeno culturale diffuso soprattutto nell’Italia meridionale che attribuisce le cause di un malessere psicologico al morso velenoso di un ragno, la tarantola. È ancora una volta il linguaggio rituale a rassicurare e proteggere l’uomo contro la pericolosità del disagio psicologico: un rito coreutico-catartico, attraverso la musica e la danza, cerca di liberare l’individuo dal veleno. Indagando il funzionamento della mitologia come forma di narrazione arcaica propria della natura umana, Giada Cicchetti riflette sulla necessità dell’uomo di servirsi di una narrazione per spiegare alcuni fenomeni che altrimenti rimarrebbero ignoti. Il morso del ragno diventa quindi quell’elemento che giustifica un comportamento ritenuto troppo irrazionale e che forse genera paura. Ne “La ballata del rimorso”, Giada Cicchetti recupera questo rituale immaginando la diffusione del tarantismo ai nostri giorni e concentrandosi su un tema molto attuale come quello del disturbo mentale, ragiona su quanto ancora oggi esista uno stigma in merito e di come forse l’uomo necessiti ancora di quella “narrazione” per accettare e proteggersi dal pericolo.